«Nessuno è la conseguenza di niente, ognuno è l’inizio della propria avventura.»
(Michele Vaccari, Urla sempre primavera, p. 351)
Per dire di questo libro provo a ricomporre i frammenti di un puzzle complesso e a porre, e porvi, delle domande.
Di un libro che ne contiene cinque – Rosso, Blu, Nero, Verde, Bianco – e di una Voce che ne racchiude quattro dirò anche attraverso frasi mozze trascritte sulle pagine finali, quelle bianche che nessuno usa, che restano intonse e che io ho sempre amato perché mi permettono di raccontare una storia parallela a quella di chi ha scritto.
Ma entriamo nella Storia.
Avete presente il momento in cui qualcuno girava un video per sbaglio e «di sfondo, aveva la Storia che stava cambiando per sempre, l’attimo in cui è successo, l’istante a partire dal quale nulla sarebbe stato mai più come prima.»?
Genova, luglio 2001, per dirne uno.
Non è che da allora, come popolo, abbiamo perso qualcosa?
Il coraggio, per dirne una.
«Forse è quello che ci interessa. Il momento in cui niente è più come prima, quello ci riguarda tutti.»
Sapreste dire quali, e quanti, sono i momenti della Storia in cui è accaduto?
E dove eravate, in quel momento?
Sono domande che mi sono posta, leggendo, e che evocano una responsabilità cui ciascuno è chiamato come “essere umano”, prima, e come “civis”, poi; entrambe parole impegnative, cariche di tensione e promesse.
Io non c’ero, eppure tutti noi c’eravamo. Abbiamo guardato a distanza di sicurezza.
Siamo rimasti inerti, inermi, sconvolti, il fracasso delle sirene ci ha squassato le vene.
Avete visto cosa accade se non state zitti e buoni? Dicevano frastuono e schegge impazzite.
Che fine fanno, e che vita, quelli che restano dopo aver visto sangue e morte a distanza di sicurezza?
Il problema è che
«tutti vogliono ascoltare la storia di chi è scampato, di chi ha sconfitto il destino, ovvio, ma appena passa la notizia nessuno ci tiene più davvero, nessuno prova emozione per chi ce la fa. I morti, quelli fanno proseliti. Senza la morte, manco Gesù sarebbe mai stato qualcuno.(…) Crediamo di combatterla ma conservare la memoria è il nostro modo di omaggiarne la potenza, l’invincibilità. La morte ci rende vivi, eroici.»
Ora immaginate….
…un governo di anziani, la Venerata Gherusia, e un’operazione chiamata “fine nascite”:
–si proibisce alle donne di avere figli
–si dispone che i bambini entro i due anni vengano portati alla Scuola Speciale di Rassegnazione Interiore e preparati al futuro programmato per tutti
–si obbliga i più grandi a far parte dei servizi di provata utilità della Gherusia come autisti, maggiordomi, chef, camierieri, giacchè per la Venerata Gherusia “gioventù fa rima con servitù”.
Siamo in un mondo in cui generare vita, o essere bambini, è un reato.
Un mondo senza futuro, un mondo storto, rotto il cielo, guasta la natura, guasto l’uomo, un mondo devastato sotto ogni punto di vista, popolato da gente che si esprime in un linguaggio balbettante di suoni sgrammaticati, un impasto di risibili borborigmi.
Ora immaginate che esista una donna capace di penetrare nella mente delle persone e cambiare i loro sogni, cambiare i sogni di questo (proprio questo) Paese addormentato.
La speranza è una bambina che non sarebbe dovuta nascere e che può far accadere l’improbabile.
Direbbe Sir Arthur Conan Doyle «Una volta eliminato l’impossibile ciò che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità.»
La bambina si chiama Egle e, quando leggiamo le prime pagine, ancora “non esiste”.
La madre, Zelinda, è in fuga; la bambina è dentro di lei e lei vuole salvarla. La salva, e in eredità le lascia delle registrazioni, le tatua sul corpo una mappa nella quale è indicato il punto esatto in cui troverà la Venerata Gherusia: se sarà necessario per fermare “l’estinzione programmata”, Egle saprà dove stanare il nemico. Il compito di farle comprendere l’importanza di questa missione sarà di Spartaco, ex partigiano queer: suo nonno.
«Ogni genitore porta con sé un rimpianto irrisolto, un sogno mancato, un obbligo involontario che tramanda alla propria discendenza.»
In questo libro ci sono donne coraggiose: una madre che affida alla figlia l’onere della Rivoluzione; una creatura generata violando la legge, la sola donna che potrebbe salvare un Paese votato all’annientamento.
Troviamo Zelinda immersa in un pensiero che regge l’impianto della storia: «…le guardo e lo so: siamo l’unica guerra che ha senso oggi: da un lato le barbe, le calvizie, le prostatiti; dall’altro le forzate dell’ecografie, le abusive, le creatrici.»
Perché la società del futuro non basta sognarla di notte; poi devi svegliarti e convertire al sogno il tuo esercito personale, persuadere quelli che hanno smesso di credere che un cambiamento sia possibile.
Questa fede ha delle conseguenze. Sangue, ossa, sudore, muscoli. Una questione di Resistenza, una questione di carne incisa dal tempo. Una ferita.
Il tempo e la cicatrice
Egle, come spesso i viaggiatori nel tempo (vedi il celebre romanzo di H. G. Wells) ha una “cicatrice”, un segno sul corpo: in questo caso il tatuaggio di una mappa.
Qualcosa di simile accade in Dark, serie tv tedesca dalle atmosfere cupe e seducenti che ho seguito parallelamente alla lettura del libro e con la quale ho trovato diverse affinità.
L’intreccio della prima stagione si svolge su tre piani temporali principali: 1953, 1986, 2019. Nella seconda stagione le vicende si estendono anche nel 1921 e nel 2052, nella terza le vicende giungono fino al 1888. Un intreccio complesso, un montaggio labirintico e avvincente che obbliga a non porsi troppe domande, a spostare continuamente il punto di vista e che continuamente sorprende; nella storia i personaggi possono muoversi nel tempo ma non possono modificare il loro destino né quello degli altri; il passato è immutabile, la sorte di ciascuno è segnata in maniera ineluttabile.
Anche il romanzo di Vaccari trova la sua forza, capace di frantumare i tradizionali generi e le aspettative, proprio nella scansione interna; sorprende per questo inatteso spostamento su più piani temporali in un arco di tempo che va dall’8 settembre 1943 all’8 settembre 2043.
Come in “Urla sempre primavera”, anche nel mondo di Dark esiste una minaccia di estinzione finale (ma non dirò di più perché l’invito racchiuso in questa riflessione è a guardare, oltre che a leggere).
I simboli nelle parole. Mansplaining uber alles
«…in una Rivoluzione, sono i simboli a guidare le azioni, mai viceversa»
Di simboli è ricchissimo questo romanzo.
Per dire del linguaggio proteiforme usato da Vaccari, che mi pare simbolo di un mondo frantumato (interno ed esterno ai narratori) potrei dire delle quattro Voci narranti, o del mix di frammenti poetici e termini volgari, toni lirici e altrove rabbiosi, violenti; invece voglio soffermarmi su una porzione più minuta di testo che a mio avviso illumina il potenziale di innovazione racchiuso nell’operazione di mescidazione lessicale.
A pagina 60 trovo questo magnifico “mansplaining uber alles”, espressione che Zelinda usa per definire il tono usato dal marito nei suoi confronti.
Mansplaining è un neologismo di orgine inglese (man + splaining, dal gerundio del verbo explain, spiegare) adoperato nel contesto femminista per definire l’intollerabile atteggiamento paternalistico di uomini (ma non solo) inclini a spiegare a una donna con toni di condiscendenza e/o sicumera qualcosa di ovvio; se lo fanno è perché pensano di saperne comunque più della donna o che lei non capisca mai fino in fondo, secondo l’adagio duro a morire che quando un uomo parla, la donna deve star zitta e ascoltare perché comunque l’uomo ne sa più di lei sulla questione (anche su quella di cui lei sarebbe competente).
Mi torna alla mente una scena, sulla quale peraltro ho riso moltissimo, dell’ottava stagione di Big Bang Theory in cui Sheldon Cooper al cospetto del rettore fa il mansplainer con la fidanzata, Amy Farrah Fowler: glielo perdoniamo perché è un genio, perché il mansplainer lo fa anche con gli amici uomini e perchè sappiamo che in fondo è un cuoredolce.
Uber alles, “al di sopra di tutto”, è l’espressione contenuta nella prima strofa dell’inno tedesco. La frase “Deutschland über alles” fu adoperata dal nazismo per mettere in luce il predominio della Germania su tutti gli altri popoli; di per sé il brano è solo una ballata romantica celebrativa dell’unità nazionale ma il nazismo, in questo come in altri casi, piegò la prima strofa al servizio dell’ideologia.
Cultura al servizio del potere, vi dice niente?
Nel 1945 gli Alleati vietarono che questa canzone fosse utilizzata come Inno nazionale tedesco. L’espressione “uber alles” permane oggigiorno nel linguaggio comune per indicare qualcosa che ha un’importanza superiore al resto (o che viene prima) ma io credo che un autore come Vaccari, che scrive un romanzo fortemente politico, nel divertirsi a congiungere le due espressioni in Mansplaining uber alles, avesse in mente tutti i livelli di lettura ai quali si presta l’operazione.
Patriarcato + ideologie autoritarie: una mortifera e arcinota storia di un amore (sbagliato)
Per dire ancora della varietà del linguaggio, le pagine 70-72 contengono un notiziario con l’inserzione di parole e sintagmi consunti tipici del giornalese (“carneficina”, “catastrofe di questa portata”, “brutale aggressione”, “racconto straziante”, ecc…)
Che fare, mentre tutto intorno crolla?
La domanda fondamentale del libro la trovo a pagina 369:
dobbiamo restare a casa nostra e coltivare una piccola felicità mentre tutto intorno crolla?
La risposta sembra esserci:
«nessun amore vale il prezzo di una rivoluzione che possa ridare tanta vita al mondo»
Ma la domanda resta ed è ciascuno di noi che, sembra dirci l’autore, dovrebbe rivolgerla a se stesso. Sì, dovrebbe: è questo che sembra dire. Come una cogenza, una necessità inderogabile.
Chi è disposto a barattare la propria felicità, il proprio amore privato per mettersi al servizio della collettività? Chi ha le spalle tanto forti da reggere il sacrificio?
Forse, sembra urlare il libro, se solo ci muovessimo per tempo, potrebbe non arrivare il momento in cui saremo comunque costretti a farlo.
Meno uomini e più cani pazzi?
«Per noi uomini, c’è se sempre una casa, un porto sicuro, un luogo a cui tronare. Ed è questo partire e andare il problema che non hanno gli Animali. Un partire che può non restituirti a chi tiene a te, un restare che può farti rimpiangere per sempre di non essere andato. Ovunque vanno, loro si adattano, è la loro nuova casa, non provano nostalgia, come quando giunsero qui e dopo un secondo si erano abituati alla rada erba a disposizione.» (p. 372)
Dimenticatela, sembra dire questa Voce, uccidetela la maledetta nostalgia (di casa, del passato, di qualsiasi cosa). Siate un po’ meno ragionevoli, più pazzi, più sognatori. Siate come gli animali.
Ovunque viene ribadito l’incitamento ad essere pericolosi. Vaccari non scompare dietro ai suoi personaggi ma lancia strali, colpisce e affonda, e fa dire a Spartaco (che parla di sé stesso intercambiabilmente al maschile e al femminile) che il dibattito non serve a niente,
«uccide la politica, alimenta la connivenza, è l’orgasmo del compromesso»; persino il movimento queer, potenzialmente rivoluzionario date le premesse, ha perso un occasione: bisognava usare la violenza, bisognava essere terribili, essere cani pazzi da battaglia non fare feste di carnevale con le parrucche. Bisognava.
Un’altra risposta possibile al da farsi, la trovo qui:
«Quando muori, diventi il sogno di qualcuno.» (p. 402)
che, oltre ad essere una chiamata alle armi vera e propria, è una delle frasi più poetiche dell’intero libro (oltre 400 pagine).
Un libro per pazzi, non per sognatori
All’inzio, leggendo troppe volte la parola “sogno”, ho creduto davvero che fosse un libro per sognatori.
Ora non sono più tanto d’accordo, né con il libro né con me stessa: ripensandoci, riandando alla violenza senza misura, al coraggio feroce e sfrenato di essere una voce polemica, incazzata, divergente – con tutte le ricadute che questo può avere, dentro e fuori dal libro – sono più convinta che questo sia un libro per pazzi, non per sognatori.
Il pazzo avrà sempre dei nemici; e anche questo libro, come la speranza e il coraggio che invoca, sembra chiedere a gran voce di averne.
Per quest’ultima suggestione la colpa è di Pavese, di questa sua frase che da sempre mi ossessiona:
«Bisogna essere pazzi, non sognatori. Essere al di qua dell’assestamento, non al di là. Un pazzo può ancora rinsavire, ma al sognatore non resta che staccarsi da terra. Il pazzo ha dei nemici. Il sognatore non ha che se stesso.
[Cesare Pavese – Il mestiere di vivere – Diario 1935-1950]
Il libro di cui (non) ho fatto la recensione è “Urla sempre primavera” di Michele Vaccari, NN Editore
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